Simone Vieri
Università La Sapienza, Roma
Il sistema di norme comunitarie per il rilascio ambientale e l’impiego di organismi geneticamente modificati (OGM) ha determinato numerosi motivi di contrasto tra la Commissione UE e gli Stati membri, in specie per ciò che riguarda la coltivazione,  che  è stata, di fatto, bloccata in otto Paesi.
Al fine di superare tali difficoltà , la Commissione UE ha iniziato ad elaborare una linea politica che, contrariamente al recente passato, non esclude più la possibilità del divieto alla coltivazione, da parte degli Stati membri, ma cerca di combinare il sistema di autorizzazioni europee, con il riconoscimento della libertà , per gli stessi Stati, di praticare, o meno, le coltivazioni sui loro territori.
Tale nuova impostazione, sebbene importante e di sicuro interesse, non è, tuttavia, risolutiva riguardo alla questione dell’impiego degli OGM in agricoltura, ma, anzi, rappresenta una soluzione di compromesso che si limita a spostare i termini del problema e che, di fatto, sancisce il nuovo quadro di riferimento – e di interessi – in cui detta questione deve essere, oggi, considerata.
La coltivazione di piante GM, aumentata, in 15 anni, da 1,7 a 134 milioni di ettari, si è concentrata in Paesi come USA, Argentina, Brasile (da soli, contano circa l’80% delle superfici)  che già erano principali produttori ed esportatori dei prodotti delle specie interessate, determinando, in specie per la soia, una sostituzione, di fatto, dei prodotti convenzionali, con quelli GM.
Per la UE, in genere, e l’Italia, in particolare, il problema degli OGM non si pone, dunque, in riferimento alla coltivazione delle principali specie interessate – per le quali sarebbero, comunque, destinate a rivestire un ruolo irrilevante a livello mondiale – bensì per la loro utilizzazione.
Si pensi, al riguardo, che, in Italia, si importano, in media, prodotti per l’alimentazione zootecnica (in buona parte, inevitabilmente, provenienti da Paesi produttori di OGM) per 1,7 miliardi di euro; mentre se si dovesse procedere all’introduzione delle coltivazioni transgeniche, si potrebbe, realisticamente, investire non più di qualche decina di migliaia di ettari, alimentando un mercato delle sementi transgeniche dal valore che sarebbe nell’ordine di pochi milioni di euro. E’, dunque, evidente che, riguardo al mercato europeo,  l’interesse delle multinazionali del biotech non è più rivolto alla coltivazione, ma al commercio e, quindi, all’impiego di OGM coltivati altrove.
In questo contesto, la questione OGM pone, oggi, delle priorità profondamente diverse rispetto al recente passato, in quanto l’aspetto centrale non è più rappresentato dalla loro coltivazione, bensì dalla natura dei beni intermedi (GM o non GM) che si intendono utilizzare nei processi produttivi di alcuni tra i più importanti prodotti dell’agro-alimentare italiano, primi fra tutti quelli delle filiere zootecniche.
Ne discende che il bivio di fronte al quale si trova oggi l’agro-alimentare italiano è tra la scelta di  puntare su filiere italiane, quale strumento di valorizzazione delle peculiarità dell’intero sistema, oppure di limitarsi a perseguire l’obiettivo del “fatto in Italiaâ€, con prodotti intermedi, variamente, reperiti sul mercato globale.
La scelta non è di poco conto, ma strategica, in quanto, nel lungo periodo, dalla possibilità di continuare a fornire materie prime per la trasformazione, dipenderà la sopravvivenza stessa di una larga parte della nostra agricoltura e, quindi, anche del ruolo, non solo produttivo, che essa svolge nel sistema socio-economico del Paese.