Associazione Agricoltura Biodinamica Italiana
Economia agricola italiana e organismi transgenici

Economia agricola italiana e organismi transgenici

Claudio Malagoli
Università di Scienze Gastronomiche – Pollenzo/Bra
Da un punto di vista socio-economico occorre prima di tutto evidenziare che specifiche indagini hanno rilevato che l’80% dei consumatori si è dichiarato contrario all’acquisto di Organismi Transgenici (OT), anche in relazione al fatto che ci si trova di fronte ad una contraddizione: “stiamo pagando gli agricoltori per non coltivare la terra, gran parte delle produzioni sono contingentate (quote di produzione su latte e su altri prodotti agricoli), distruggiamo parte delle produzioni in eccesso per mantenere un elevato prezzo di mercato e dovremmo applicare una tecnologia non sicura solo perché in grado di produrre a minori costi?”.
Per il settore agricolo nazionale coltivare OT significa mettersi in concorrenza con forme di agricoltura completamente diverse dalla nostra; agricolture che hanno grandi disponibilità di terreni, che non hanno limitazioni nell’uso di concimi e di antiparassitari, che sfruttano il lavoro minorile, che non hanno tutele sindacali, ecc.
Per la nostra agricoltura:
se è vero che determineranno un abbassamento dei costi di produzione (cosa tutta da verificare fin tanto che ci sarà separazione di filiera), è altrettanto vero che favoriranno un abbassamento dei prezzi di mercato dei prodotti agricoli, impedendo così un aumento dei profitti e determinando una perdita di reddito reale per l’agricoltore;
il brevetto e lo sviluppo di sementi apomittiche causeranno la perdita di imprenditorialità per l’agricoltore, che diventerà un prestatore di manodopera per conto di chi detiene il brevetto, in quanto le produzioni saranno attuate sulla base di un “contratto di coltivazione” (soccida);
faciliteranno l’operazione di delocalizzazione delle coltivazioni, che saranno trasferite nei Paesi caratterizzati da un minor costo dei fattori produttivi;
determineranno l’abbandono dei territori marginali, che non saranno in grado di competere sulla base dei bassi costi di produzione;
attraverso strategie di appropriazionismo e di sostituzionismo, determineranno una minor utilizzazione e, conseguentemente, un abbassamento del reddito spettante ai fattori produttivi solitamente apportati direttamente dall’agricoltore (manodopera soprattutto);
aumenteranno la dipendenza del nostro Paese nei confronti delle forniture di sementi provenienti dall’estero;
determineranno una diminuzione del numero di occupati in agricoltura;
determineranno un danno di immagine per l’agro-alimentare nazionale, da tutti conosciuto e copiato per le sue produzioni di eccellenza.
Occorrerà poi considerare che con questi OT la coesistenza è impossibile, in quanto  il transgene è inserito nel genoma nucleare e, pertanto, viene espresso in ogni parte della pianta (foglie, radici, polline, ecc.) ed origina inquinamento genetico. In questa situazione il settore produttivo (biologico o convenzionale) che non intende coltivare piante transgeniche, soprattutto nel caso di accordi contrattuali con gli utilizzatori del prodotto, dovrà mettere a punto adeguate strategie di contenimento dell’inquinamento genetico, che determinerà una lievitazione dei costi agricoli. Prima di ipotizzare la coesistenza occorrerà verificare il complesso degli effetti prodotti dall’introduzione di OT sull’intera filiera distributiva, che parte dall’agricoltore ed arriva sino alla distribuzione al dettaglio. E’ vero che gli agricoltori subiranno maggiori costi, ma è altrettanto vero che anche i trasformatori subiranno maggiori costi e minori redditi (di approvvigionamento, di analisi, ecc.), ed è altrettanto vero che anche i distributori di prodotti di eccellenza subiranno maggiori costi e minori redditi (il prezzo di vendita non potrà andare oltre certi livelli rispetto al prodotto transgenico). Con ogni probabilità, gli unici che guadagneranno da questa situazione di incertezza produttiva saranno i produttori di beni alimentari di scarsa qualità, che vedranno aumentare le difficoltà produttive di coloro che offrono prodotti di eccellenza (difficoltà nel reperimento della materia prima, maggiori costi di approvvigionamento, maggiori costi di analisi, minori prezzi di vendita rispetto agli incrementi di costo, ecc.) e vedranno divenire maggiormente competitivi i prodotti da loro offerti (in termini relativi, se il prezzo dei prodotti di eccellenza aumenterà, il prezzo degli altri prodotti di minore qualità, pur rimanendo costante, è come se diminuisse).
A questo punto, in un’ottica di globalizzazione dei mercati, si inseriscono considerazioni di opportunità per il nostro Paese. Per quale motivo l’Italia dovrebbe aprire al transgenico se il consumatore non lo vuole? Non risponde ad alcuna logica economica la strategia di voler immettere sul mercato  un bene che l’80% degli acquirenti ha detto di non voler acquistare. Perché la nostra agricoltura dovrebbe abbandonare una strategia sicura, basata sulla qualità, sulla tracciabilità e sulla sicurezza alimentare, per far posto ad una produzione omologante, sempre meno richiesta dal mercato? Potrà competere il nostro Paese sul mercato globale sulla base dei bassi costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita o, più realisticamente, potrà competere sulla base di produzioni di eccellenza ad alto valore aggiunto? Perché mai, in un’ottica di sviluppo sostenibile, dovremmo adattarci a coltivare prodotti “non ancora sicuri” per la salute umana e per l’ambiente, ben sapendo che questa strada è senza via di uscita?
In conclusione, si può affermare che le problematiche relative all’introduzione di coltivazioni transgeniche sono notevoli e di portata tale da non giustificare una decisione affrettata. Certamente la nostra agricoltura da sempre basata su presupposti di tipicità e di qualità non ha bisogno dell’attuale biotecnologia, che per essere considerata sostenibile dovrebbe avere possibilità applicative decisamente migliori.
Occorrerà poi valutare attentamente se questi “nuovi alimenti” rispondono ad una reale esigenza del consumatore. Soprattutto nell’attuale momento in cui egli tende a privilegiare la tipicità, la salubrità e, più in generale, la naturalezza dei prodotti alimentari (il forte aumento del consumo di produzioni biologiche ne è una conferma), si può affermare che il loro sviluppo è sicuramente in controtendenza. Una controtendenza che andrà valutata attentamente, al fine di non impiegare risorse economiche e capacità umane nello sviluppo di produzioni delle quali, forse, non abbiamo una reale necessità.

Claudio Malagoli Università di Scienze Gastronomiche – Pollenzo/Bra

Da un punto di vista socio-economico occorre prima di tutto evidenziare che specifiche indagini hanno rilevato che l’80% dei consumatori si è dichiarato contrario all’acquisto di Organismi Transgenici (OT), anche in relazione al fatto che ci si trova di fronte ad una contraddizione: “stiamo pagando gli agricoltori per non coltivare la terra, gran parte delle produzioni sono contingentate (quote di produzione su latte e su altri prodotti agricoli), distruggiamo parte delle produzioni in eccesso per mantenere un elevato prezzo di mercato e dovremmo applicare una tecnologia non sicura solo perché in grado di produrre a minori costi?”. Per il settore agricolo nazionale coltivare OT significa mettersi in concorrenza con forme di agricoltura completamente diverse dalla nostra; agricolture che hanno grandi disponibilità di terreni, che non hanno limitazioni nell’uso di concimi e di antiparassitari, che sfruttano il lavoro minorile, che non hanno tutele sindacali, ecc.Per la nostra agricoltura:se è vero che determineranno un abbassamento dei costi di produzione (cosa tutta da verificare fin tanto che ci sarà separazione di filiera), è altrettanto vero che favoriranno un abbassamento dei prezzi di mercato dei prodotti agricoli, impedendo così un aumento dei profitti e determinando una perdita di reddito reale per l’agricoltore;il brevetto e lo sviluppo di sementi apomittiche causeranno la perdita di imprenditorialità per l’agricoltore, che diventerà un prestatore di manodopera per conto di chi detiene il brevetto, in quanto le produzioni saranno attuate sulla base di un “contratto di coltivazione” (soccida);faciliteranno l’operazione di delocalizzazione delle coltivazioni, che saranno trasferite nei Paesi caratterizzati da un minor costo dei fattori produttivi;determineranno l’abbandono dei territori marginali, che non saranno in grado di competere sulla base dei bassi costi di produzione;attraverso strategie di appropriazionismo e di sostituzionismo, determineranno una minor utilizzazione e, conseguentemente, un abbassamento del reddito spettante ai fattori produttivi solitamente apportati direttamente dall’agricoltore (manodopera soprattutto);aumenteranno la dipendenza del nostro Paese nei confronti delle forniture di sementi provenienti dall’estero;determineranno una diminuzione del numero di occupati in agricoltura;determineranno un danno di immagine per l’agro-alimentare nazionale, da tutti conosciuto e copiato per le sue produzioni di eccellenza.Occorrerà poi considerare che con questi OT la coesistenza è impossibile, in quanto  il transgene è inserito nel genoma nucleare e, pertanto, viene espresso in ogni parte della pianta (foglie, radici, polline, ecc.) ed origina inquinamento genetico. In questa situazione il settore produttivo (biologico o convenzionale) che non intende coltivare piante transgeniche, soprattutto nel caso di accordi contrattuali con gli utilizzatori del prodotto, dovrà mettere a punto adeguate strategie di contenimento dell’inquinamento genetico, che determinerà una lievitazione dei costi agricoli. Prima di ipotizzare la coesistenza occorrerà verificare il complesso degli effetti prodotti dall’introduzione di OT sull’intera filiera distributiva, che parte dall’agricoltore ed arriva sino alla distribuzione al dettaglio. E’ vero che gli agricoltori subiranno maggiori costi, ma è altrettanto vero che anche i trasformatori subiranno maggiori costi e minori redditi (di approvvigionamento, di analisi, ecc.), ed è altrettanto vero che anche i distributori di prodotti di eccellenza subiranno maggiori costi e minori redditi (il prezzo di vendita non potrà andare oltre certi livelli rispetto al prodotto transgenico). Con ogni probabilità, gli unici che guadagneranno da questa situazione di incertezza produttiva saranno i produttori di beni alimentari di scarsa qualità, che vedranno aumentare le difficoltà produttive di coloro che offrono prodotti di eccellenza (difficoltà nel reperimento della materia prima, maggiori costi di approvvigionamento, maggiori costi di analisi, minori prezzi di vendita rispetto agli incrementi di costo, ecc.) e vedranno divenire maggiormente competitivi i prodotti da loro offerti (in termini relativi, se il prezzo dei prodotti di eccellenza aumenterà, il prezzo degli altri prodotti di minore qualità, pur rimanendo costante, è come se diminuisse).    A questo punto, in un’ottica di globalizzazione dei mercati, si inseriscono considerazioni di opportunità per il nostro Paese. Per quale motivo l’Italia dovrebbe aprire al transgenico se il consumatore non lo vuole? Non risponde ad alcuna logica economica la strategia di voler immettere sul mercato  un bene che l’80% degli acquirenti ha detto di non voler acquistare. Perché la nostra agricoltura dovrebbe abbandonare una strategia sicura, basata sulla qualità, sulla tracciabilità e sulla sicurezza alimentare, per far posto ad una produzione omologante, sempre meno richiesta dal mercato? Potrà competere il nostro Paese sul mercato globale sulla base dei bassi costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita o, più realisticamente, potrà competere sulla base di produzioni di eccellenza ad alto valore aggiunto? Perché mai, in un’ottica di sviluppo sostenibile, dovremmo adattarci a coltivare prodotti “non ancora sicuri” per la salute umana e per l’ambiente, ben sapendo che questa strada è senza via di uscita?In conclusione, si può affermare che le problematiche relative all’introduzione di coltivazioni transgeniche sono notevoli e di portata tale da non giustificare una decisione affrettata. Certamente la nostra agricoltura da sempre basata su presupposti di tipicità e di qualità non ha bisogno dell’attuale biotecnologia, che per essere considerata sostenibile dovrebbe avere possibilità applicative decisamente migliori. Occorrerà poi valutare attentamente se questi “nuovi alimenti” rispondono ad una reale esigenza del consumatore. Soprattutto nell’attuale momento in cui egli tende a privilegiare la tipicità, la salubrità e, più in generale, la naturalezza dei prodotti alimentari (il forte aumento del consumo di produzioni biologiche ne è una conferma), si può affermare che il loro sviluppo è sicuramente in controtendenza. Una controtendenza che andrà valutata attentamente, al fine di non impiegare risorse economiche e capacità umane nello sviluppo di produzioni delle quali, forse, non abbiamo una reale necessità.


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