di Carlo Modonesi
Università degli Studi di Parma
Uno strumento essenziale per chi lavora nella ricerca scientifica, come del resto in qualsiasi altro settore professionale, risiede nella possibilità di disporre di un linguaggio comune e, nei limiti del possibile, inequivocabile. Nel caso della biologia naturalistica, è essenziale poter condividere una nomenclatura formale in grado di identificare con precisione ogni singola specie animale (o vegetale) e condensare in una formula linguistica buona parte dell’informazione bio-evolutiva relativa ad essa. Si tratta di una convenzione linguistica banale ma al contempo di primaria importanza, in quanto permette di evitare lunghe ed elaborate descrizioni ogni volta che ci si riferisce a qualche organismo in termini scientifici. La soluzione moderna a questa necessità venne elaborata dal grande botanico svedese Carlo Linneo, il quale, a metà del XVIII secolo, descrisse migliaia di specie animali e vegetali secondo uno schema logico basato sulle somiglianze morfologiche e organizzato in categorie gerarchiche (i taxa). L’approccio tassonomico di Linneo permise di costruire una sorta di anagrafe naturalistica accessibile attraverso l’elaborazione di una carta d’identità individuale in cui gli individui costituivano i tipi biologici, ossia le singole specie. Anche la specie umana prese parte a questa schedatura anagrafica di massa operata da Linneo, tant’è che una volta stabilita la formula binomia più congrua… ossia venata da lieve megalomania, la specie Homo sapiens venne registrata come una delle tante creature meritevoli dell’attenzione dei naturalisti. Anche se forse non previsto dalle intenzioni di Linneo, questo fu il primo passo verso una concezione olistica del mondo naturale perché di fatto parificò tutti gli esseri viventi conosciuti all’interno di un unico sistema di classificazione. Linneo segnò dunque uno spartiacque nella storia delle scienze naturali, il che viene confermato dal fatto che i fondamenti della tassonomia biologica moderna, compreso appunto lo sviluppo della nomenclatura binomia delle specie, restano a tutt’oggi legati alla sua opera (Systema Naturae).
Attualmente, tuttavia, molte cose sono cambiate nella prassi e nella cultura della scienza, per cui il tentativo di mettere ordine nel grande (apparente) disordine della natura non risponde più solo al bisogno dell’uomo di catalogare ogni oggetto riconducibile a uno dei diversi regni della vita, ma anche a un imperativo etico dettato dalle nostre responsabilità nei confronti della biodiversità e del mondo che lasceremo alle generazioni future. A ben vedere, pare non esistano alternative: all’alba della sesta grande estinzione biologica nella storia della Terra, la possibilità di avere una stima verosimile dello stato di conservazione delle specie presenti sul pianeta dipende dalla scoperta-descrizione-registrazione delle specie che ancora sono ignote alla scienza, nonché da una più incisiva salvaguardia di quelle note.
Molti biologi – incluso chi scrive – sostengono con determinazione tale punto vista, ma le loro speranze conservazioniste si scontrano quotidianamente con la crudezza dei dati relativi alla condizione dell’ambiente naturale. Veleni chimici, sostanze cancerogene, global warming, frammentazione degli habitat, desertificazione del territorio, cementificazione dei suoli, contaminazione delle acque, trasferimenti di specie esotiche, inquinamento atmosferico, caccia e bracconaggio, pesca industriale, e altre oscenità ambientali di origine umana testimoniano una delle più grandi defaillances di cui la Terra futura dovrà purtroppo tenere conto.
Mentre i super-analisti dei trend planetari ci avvertono – bontà loro – che la catastrofe ecologica in atto è certamente l’effetto delle ferite che Homo sapiens ha inferto alla oikos negli ultimi secoli, e con un’accelerazione impressionante negli ultimi 50 anni, apprendiamo che il 20 agosto 2013 si è ufficialmente celebrato l’overshoot day: un triste rituale che ormai si ripete di anno in anno con cadenza sempre più anticipata. Pochissimi mass-media si sono preoccupati di darci questa notizia, o comunque nessuno tra quelli che invadono quotidianamente le biblioteche, i bar, i luoghi di lavoro, e le nostre case ha avuto il buon senso di riportarla tra i fatti di interesse globale più gravi e urgenti. Ma il dato resta e, a meno di essere negazionisti di professione, nessuna persona dotata di pragmatismo e buon senso può contestare che l’overshoot dovrebbe campeggiare ogni giorno sulla prima pagina di tutti i più grandi quotidiani del mondo. L’overshoot ci parla della guerra senza quartiere che abbiamo scatenato contro la natura e le sue risorse, quindi contro noi stessi, e, a una guerra che ci riguarda interamente come specie, più che come popolo o nazione, qualche attenzione bisognerebbe riservarla.
Nell’ecologia dei sistemi ambientali, il termine overshoot (letteralmente ‘superare il limite’) viene impiegato per indicare il momento in cui il consumo di natura da parte dell’uomo oltrepassa la capacità rigenerativa delle risorse rinnovabili. La progressiva reiterazione dell’overshoot porta all’accumulo di rifiuti e soprattutto a un’accelerazione dell’impoverimento del capitale naturale, ossia di quel patrimonio di risorse indispensabile per mantenere la vita sulla terra, inclusa la vita di Homo sapiens. Facendo un esempio che forse aiuta a capire meglio, è come se un uomo vivesse di rendita bancaria consumando più di quanto la banca gli restituisce in termini di interessi sul capitale depositato, e, nel frattempo, egli si fosse riempito di debiti con vari creditori di abitudini non proprio filantropiche. Il capitale depositato in partenza verrebbe intaccato, inoltre di anno in anno si ridurrebbe progressivamente… e con esso anche gli interessi; al tempo stesso, però, le sue necessità finanziarie aumenterebbero in modo altrettanto progressivo per via dei debiti contratti con gli usurai. L’epilogo sarebbe un collasso finanziario ovvio e inevitabile, e un collasso è esattamente ciò che si teme possa accadere nell’ecologia planetaria. Gli effetti devastanti dell’overshoot furono sperimentati in passato da alcune civiltà che auto-decretarono la propria rovina, anche se i dati storici ci parlano di fenomeni tutto sommato circoscritti a realtà locali. L’overshoot ecologico di oggi, invece, si sta verificando non solo su scala locale, ma anche su scala globale, in un’epoca in cui la popolazione mondiale ha superato i 7 miliardi. Si noti che nonostante le conoscenze relative all’impatto delle attività economiche sugli ecosistemi siano disponibili da oltre mezzo secolo, i modelli produttivi, gli stili di vita e i consumi di materia ed energia delle società avanzate non si sono modificati di una virgola, anzi, si sono modificati in senso peggiorativo, cioè in direzione dell’aumento del loro gigantesco metabolismo economico/ecologico. Inutile ricordare che ormai il fenomeno riguarda anche molti paesi emergenti, nei quali la popolazione più ricca ha assorbito gli stessi stili di vita dei paesi tradizionalmente definiti avanzati. Uno dei problemi rimasti irrisolti da decenni è che in queste economie la concezione delle risorse naturali si basa non solo su una cultura della natura utilitarista e riduzionista, ma anche sul folle pregiudizio, totalmente ideologico, che vede le risorse naturali come beni auto-riproducibili all’infinito, a prescindere dai modi d’uso da parte dell’uomo. Secondo questa concezione, l’economia umana non ha nulla a che fare con il tempo, con lo spazio, e con l’organizzazione di ciò che la natura rende disponibile gratuitamente in termini di ‘beni’ e ‘servizi’. Per usare una metafora, il mondo finge di non accorgersi che la barca sulla quale sta navigando si è incagliata da decenni e sta incamerando acqua a ritmi impressionanti. Nonostante ciò, il comandante della nave nega l’evidenza e si ostina a ripetere che tutto procede normalmente, con la complicità dell’equipaggio e di una parte dei passeggeri. I dubbi degli esperti in dinamiche ecologiche non ruotano intorno alla possibilità che ‘il naufragio avvenga’, perché di questo passo il naufragio si verificherà sicuramente, ma intorno alle stime dei tempi necessari perché il naufragio si verifichi (con la speranza che nel frattempo si trovi una cura rapida ed efficace per la follia umana).
Al momento disponiamo di una serie composita di conoscenze e strumenti scientifici, politici, economici, tecnologici, e normativi che potrebbero ancora permetterci di scongiurare le drammatiche ripercussioni di una crisi ecologica senza ritorno. Ma la condizione necessaria perché ciò avvenga è anzitutto un cambio di passo culturale. Di fatto, la grande crisi della natura è il riflesso di una concomitante e forse ancora piu grave crisi della cultura, a cominciare dai molti segnali che provengono proprio dalla comunità scientifica. Non è un mistero che le scienze naturali, che da sempre si occupano di scoprire, classificare e descrivere il mondo naturale sono state declassate a scienze di quart’ordine, o anche peggio. Anche in ambito scientifico, la modernità è profondamente condizionata dai miti della crescita economica illimitata, del saccheggio della biosfera, del PIL, dei business fondati sulla cementificazione delle foreste, ecc. Ma ci sono anche forme più sottili di devastazione e/o alienazione della natura, come le mode scientifiche della bioprospezione industriale, che contempla l’esplorazione del mondo naturale finalizzata alla scoperta di nuove risorse biologiche (geni, proteine, molecole di vario tipo) da utilizzare soprattutto nello sviluppo di biotecnologie per l’agri-business e per il business farmaceutico-biomedicale. Queste risorse sono destinate a essere scoperte, isolate, studiate, copiate, modificate, clonate, brevettate, privatizzate, (ecc.) per meri scopi di mercato. Del resto, in quest’epoca dominata dalla propaganda scientista e dalle applicazioni tecnologiche più invasive (in senso ecologico), è credenza diffusa che i saperi importanti siano soltanto quelli che promettono il facile sfruttamento e controllo dei fenomeni naturali attraverso la tecnologia. Salvo poi scoprire che una cosa è controllare una macchina interamente progettata e costruita dall’uomo, ben altra cosa è controllare un sistema ecologico o biologico ‘costruito’ nel corso di milioni di anni dall’evoluzione. Non a caso, tra i problemi più importanti mostrati dall’odierna cultura scientista vi è la scarsa attenzione prestata alla dimensione storica delle scienze della natura. La popolarità di cui ancora godono i vecchi miti deterministi applicati allo studio della vita sembra aver cancellato ogni interesse per i processi evolutivi, ossia le trasformazioni della natura nel corso del tempo e nello spazio. Com’è stato affermato da molti autori, le scienze che tentano di chiarire “la natura della natura’ appartengono al dominio delle scienze storiche, poiché la loro prerogativa essenziale è lo studio di fenomeni irripetibili e non più modificabili, e avvenuti su scale temporali, di spazio e di organizzazione ecologica diverse (dal micro al macro e viceversa). Questo significa che per comprendere l’organizzazione della natura è necessario partire dalla consapevolezza della sua trasformazione storica, cioè da quesiti scientifici connessi con i fatti che sono accaduti all’interno di contesti che non esistono più da migliaia o milioni di anni… e, come tali, non ricostruibili oppure ricostruibili in parte se vengono date particolari condizioni epistemologiche e metodologiche. L’equivoco forse più grossolano dell’approccio riduzionista allo studio della natura si concentra proprio su questo punto, vale a dire sull’assunto che la natura vivente sia riducibile a fattori e meccanismi microscopici (molecolari) verificabili unicamente con il metodo sperimentale (NB: il metodo sperimentale è sempre utilissimo, ma in questo caso non può essere impiegato in modo esclusivo). Le scienze storiche sono invece un campo scientifico inaccessibile se si fondano unicamente sul metodo sperimentale: un limite, questo, che per l’odierna cultura scientista equivale a una condanna a vita a essere considerate ‘non-scienze’. In realtà le cose stanno esattamente in modo opposto. L’erronea pretesa dello scientismo riduzionista è che la natura vivente che vediamo oggi, con la sua storia strettamente intrecciata agli straordinari mutamenti geologici ed ecologici che hanno segnato indelebilmente il corso degli eventi terrestri, sia leggibile esclusivamente attraverso le unità molecolari che costituiscono la materia di cui sono fatti gli organismi. La vulgata scientista implica che sia sufficiente conoscere, per via sperimentale, le più piccole unità costituenti un certo sistema biologico e i tempi medi di variazione di tali unità , e il gioco è fatto: il ‘tutto’ che caratterizzava una ‘storia’ svoltasi in migliaia/milioni di anni in un contesto naturale diventa una semplice somma di unità che variano in un contesto artificiale (laboratorio) nei tempi definiti da un protocollo sperimentale.
Quella poco sopra descritta, tuttavia, è appunto soltanto una vulgata scientista, e non il pensiero scientifico tout court. La scienza più accorta, in innumerevoli campi che vanno dalla meccanica statistica allo studio della dinamica di fenomeni come il ripiegamento nello spazio delle proteine (protein folding), ha da tempo acquisito la storicità e quindi il carattere insieme contingente e statistico dei processi evolutivi. Allo stato attuale, una schiera minoritaria ma in crescita di studiosi guarda alla storia naturale con la consapevolezza che è soltanto nella fine dialettica multifattoriale e multiscalare che si è dispiegata nel corso del tempo geologico che può essere cercato il significato scientifico della natura. Tutto il resto ricade, quando va bene, nel dominio della semplificazione gratuita, del riduzionismo più avventato, del pregiudizio economico, e, in taluni casi, della stregoneria in camice bianco… la cui credibilità è pari a quella degli oroscopi pubblicati sui rotocalchi.